27 maggio 2006

Rosso

Il mercoledì sera c’era l’abitudine di trovarsi nel piazzale della stazione.
Non era facile divertirsi, perché non c’era il cinema, non si suonava in piazza, i ristoranti chiudevano a ore pasti per una diffusa forma di lotta politica inventata dai camerieri che dalle dodici e quindici alle quattordici tutti insieme come squadre di nuotatrici sincronizzate si sedevano al primo tavolo che si trovavano davanti e mangiavano ciò che c’era nel piatto del cliente perché sostenevano che la pausa pranzo è un diritto sindacale oh avessero mai trovato un cliente non d’accordo che si lamentava.
Anche perché per questo motivo era abitudine di tutti i camerieri di servire ogni cliente (fino alle dodici e quindici) come fosse un re, non tanto per una forma di rispetto e di riconoscimento del valore del cliente, quanto per il fatto che alle dodici e quindici, se avevano sputato in un piatto, quello si mangiavano e non potevano nemmeno sporgere denuncia alla uesseelle perché vagli a spiegare.
Così i clienti non dicevano nulla perché “si vabbè il cameriere avrà anche commesso un errore, ma per una motivazione giusta” difficile venirne a capo.
Non si poteva nemmeno più contare sul mercato della domenica, per farsi quattro passi, perché i venditori ambulanti ne richiedevano ben di più per star loro dietro.

Mario di questa cosa se ne rese conto quando un giorno al mercato rimase impigliato nel filo di un bellissimo palloncino di quelli con le orecchie che se li sgonfi leggermente la plastica fa quel capezzolo in cima che te li fa sembrare due tette e per questo gli ricordava lei e dopo quella volta che la perse, ogni volta che vedeva un palloncino con le orecchie dal quale pendeva un filo ci si attaccava e non lo lasciava più andare.
Una di quelle volte fu la sua prima esperienza di tampacs.
Mica l’aveva capito che quella non era un palloncino a forma di tette ma una donna vera, non sai le risate in strada quando questa cominciò a correre e lui che cercava di restituirglielo per gentilezza.
Poi lei si fermò lui la raggiunse, senza fiato le disse “Non pensavo di averti fatto così male”.
E lei scoppiò a ridere e gli insegnò a fare l’amore nel sangue.
Accidenti quant’era più intimo.
Lui mica l’aveva mai fatto così.
All’inizio qualche remora tipica maschile, come quando una donna facendo sesso cerca di metterti un dito nel culo e tu sei pronto a saltare in piedi sul letto gonfiando i muscoli (che non hai) per dirle “Ehi ma per chi mi hai preso per un finocchio?” senza sapere che se glie lo lasci fare non significa che sei finocchio ma che l’ami e soprattutto se glie lo lasci fare godi e ne-mme-no-po-co.
E in più l’ami.
Pensaci, uomo, perché poche altre cose sono cariche di piacere come dare il culo alla donna che ami.
Perché in testa c’hai un blocco ma dal culo parte un proiettile con la faccia strafottente della donna che ami che ti disintegra quel blocco manco fosse uranio impoverito ma fidati è atomico, ti attraversa la spina dorsale e arriva dritto dritto al cervello o a quello che ne rimane.
Una di quelle poche altre cose è farci l’amore quando ha le mestruazioni.
È caldo.
No no, lo so cosa stai pensando, uomo.
Più caldo.
Da brividi.
Ti sembra di fare l’amore senza mai uscire dal suo corpo.
Nessuna posizione ti darà mai questa sensazione.
E poi sono giorni nei quali tu non pensi possa capitare.
Riscopri la trasgressione.
Mica per l’azzardo sessuale, ma per la regola che non c’è più.
Ebrezza.
Si-può-faaaa-re.

Mario per questo si appendeva a tutti i palloncini e un giorno rimase impigliato in uno un po’ più grande di lui che lo sollevò così di quei pochi centimetri sufficienti per staccare i piedi da terra facendogli scoprire improvvisamente che non era lui che stava fermo ma il mondo che girava la strada girava le case giravano le persone giravano il mercato girava e scoprì così che non era il mercato a fermarsi ma erano i venditori ambulanti che avevano davanti i clienti ambulanti e i passanti ambulanti e certo che sembrava tutto fermo ma appena staccavi i piedi da terra lo vedevi che tutto girava e spariva all’orizzonte restavi tu e il palloncino e quel filo che vi univa.
Quando non c’era il palloncino, Mario tornava a terra e il mercoledì si trovava con gli amici nel piazzale della stazione perché non essendoci cinema né ristoranti né musica si era inventato questo nuovo divertimento.
Praticamente si andava tutti alla stazione il mercoledì, giorno di arrivo del treno dalla città accanto dove c’erano i cinema e i ristoranti e la musica, e si passeggiava accanto ai viaggiatori pendolari e si ascoltavano i racconti.
C’era la volta che ti andava male e ti capitava un viaggiatore noiosissimo che pure se si spostava si portava dentro la sua noia e per questo quando scendeva dal treno non aveva nulla da raccontare e guardava per terra e rifaceva a mente l’elenco degli impegni del giorno dopo, il medico, mezz’ora in palestra, la spesa, le commesse, il lavoro, grazie a dio è mercoledì, diceva, intervallando ogni voce.
Però c’era anche la volta che ti andava bene e scendeva lei.
E allora la sentivi telefonare per raccontare cose belle, divertimento, musica, mangiato bene mamma, si ha piovuto ma ci siamo divertiti lo stesso, grazie a dio domani è giovedì e venerdì posso tornare.
E anche se tu non potevi andare ti sembrava sempre di esserci un po’ appena tornato anche tu, quando ti capitava una viaggiatrice o un viaggiatore contento.
Come si guardano i documentari sui viaggi.
Chi c’è stato in Australia?
Quanti saprebbero descrivere un canguro?
Ecco, il mercoledì ci si divertiva così.

Questa è una lettera d’amore in codice e il codice usato ha il nome in codice (è un codice, non può che avere un nome in codice) di “AnImA gEmElLa” (sono case-sensitive) e si intitola “Questa è una lettera d’amore in codice, se non ci hai letto nulla vuol dire che non è per te, ma se appena appena ci hai capito qualcosa vuol dire che hai tradotto il codice e sei il mio contatto in loco e preparati perché ti amerò per sempre e farò l’amore con te trentuno giorni al mese pure a febbraio, solo, per favore, non incazzarti se mi dimentico il tuo compleanno, ah già, ma che scemo, sei la mia AnImA gEmElLa, pure tu ti dimenticherai il mio pensa che bello, solo far l’amore” sottotitolo “Yippi-yaaaaa!!!!!”.

23 maggio 2006

foto

Ho trovato una busta, di quelle da laboratorio fotografico, dentro c'eri tu.
Quelle foto là che nessuno ha mai visto perchè nessuno poteva vederle, quelle di quella notte a giocare a scaricarsi addosso le macchine usa e getta.
E la seta e gli elastici e la pelle e vieni qui qui dove qui.
Le ho guardate l'ultima volta, le ho strappate, le ho buttate.
Non ce l'ho fatta a non pensare a cosa potrebbe succedere alle persone le cui foto buttiamo.
C'è stata, quella piccola speranza di vendetta affidata alla magia, c'è stata.

Poi ho preso i negativi.
Mi sono reso conto di avere per le mani la leva d'emergenza per i ripensamenti e ho buttato anche quelli.
Poi un pensiero mi ha attraversato la mente, ricordandomi che quelle foto nessuno le ha mai viste perchè ne avrebbero potuto fare un cattivo uso e ti avrebbero potuta danneggiare.
Li ho tirati fuori dall'immondizia, ho preso una forbice, li ho fatti in mille pezzettini inutilizzabili e li ho buttati.

Sai cosa vuol dire questo?
Che ti ho protetta di nuovo.

Così ti ho conosciuta.
Così ti ho amata.
Così ti ho buttata.

19 maggio 2006

Cerchio

Solo il tempo m’ero preso
per creare la mia dote
fin da piccolo m’han detto
“Non s’arriva a mani vuote”

Fino a ieri ero uso offrire
di propositi, vagoni
ma col fuoco delle pire
si scopriva esser soffioni

Così dissi a quel me stesso
“Coi propositi ora basta”
di gran lena mi son messo
>per organizzar la festa.

Per recarmi con l’invito
scritto sopra fogli d’oro
con inciso l’indirizzo
e la prova del lavoro.

Ma di tempo ce ne vuole
se non vuoi far viaggi invano
soprattutto se è su suole
che sei uso andar lontano

E se in più per non sbagliare
quando sei solo all’inizio
nel cammino vuoi tenere
un difficile silenzio

ti conviene prepararti
e d’altronde te l’han detto
all’arrivo quasi certo
di quel puntual sgambetto

"Che di lupi il bosco è pieno”
ti dicevano le fiabe
“La mia casa non è fieno”
rispondevi fiero e prode

Ma sui lupi non sbagliava
quella storia sì precisa
solo non mi aveva detto
che già era dentro casa

così misi nel fagotto
fogli d’oro, dote e cuore
e m’incamminai da solo
verso un nuovo vero amore

Non volevo far promesse
ma soltanto io tentare
di scoprire se lei fosse
quella giusta per ballare

La mia casa è ora pronta
niente lupi né fardelli
solo io e la sola impronta
di quei versi così belli

Sono certo che domani
ed è questo il mio sorriso
avran cuore le mie mani
per accarezzare un viso

La cucina sarà nostra
e ci giocheremo insieme
come fossimo un gran fiore
nato fiero da un sol seme.

E la camera dei bimbi
con il verde quello là
li farà crescer guardando
una sola verità

Che se vuoi una vita bella
e il tuo sogno è proprio quello
cerca d’essere la stella
di un pianeta con l’anello.

La mia dote è solo quella
dice all’ospite il gran marchio
“Questa casa è di una stella
fatta a forma del mio cerchio”

16 maggio 2006

Scatole

Metter via dieci anni di vita dentro gli scatoloni non è lungo perché c’è tanta roba, ma perché è un viaggio inatteso.
Non ci pensavi, dieci anni fa, quella sera che sei tornato a casa e per la fretta hai buttato quella lettera sulla prima pila di spartiti che hai trovato libera, che il giorno dopo lo spartito che hai appoggiato sopra avrebbe fossilizzato quelle parole come quel pesce pressato tra due lastre di pietra e che un giorno, dieci anni dopo, quando il tuo non aver più suonato aveva lasciato intonsa quella pila, sarebbero saltate fuori.
E non ci pensavi, quel giorno che hai messo quel fiore tra le pagine di quel libro, che non aprendolo più per anni perché ormai letto, il giorno che ti saresti trovato a prendere i libri in mano, uno per uno, lo avresti visto cadere.
E come avresti potuto sapere che l’avvento dei cd, che anni fa ti fece metter via in una scatola tutte le cassette che avevi, ti avrebbe fatto tornare dopo anni e anni tra le mani quel nastro 60 minuti con la sua calligrafia sopra e un’intera ora di quella voce registrata per te quella sera che le mancavi e che voleva che tu le sentissi dire il suo “Ti amo” e tutti i perché, ogni volta che ne avessi sentito il desiderio.
E sposti libri e scopri che tra uno e l’altro avevi infilato una foto di quella sera che si giocava a farsi le foto a vicenda.
E ti viene quel sorriso, uguale a quella sera.
E svuoti i cassetti e ci trovi in fondo in fondo in fondo quel bigliettino sul quale tre semplici parole ti ricordano che qualcuno ti ha amato davvero tanto, anche con quei tuoi difetti là, che di tre parole ne riempivano due.
E ti tornano fuori quei fogli sui quali avevi scritto la fiaba di babbo natale per lei che un giorno ti aveva detto che da piccola nessuno si era mai vestito da babbo natale per lei e tu per conquistarla le hai scritto la fiaba del babbo natale per le donne grandi grandi donne e la rileggi e ti ritornano negli occhi tutti gli istanti di quella sera e del giorno che andasti a comprarti il costume da babbo natale e ti torna in mente la faccia della signora del negozio di costumi che un po’ stranita ti avvisò che era settembre e che dopo che tu le hai spiegato a cosa ti serviva si commosse e ti chiese di tornare a dirle come sarebbe andata e ti ricordi di quella sera di settembre che tutto emozionato sotto casa sua in mezzo alla strada con la gente che ti guardava un po’ strano ti mettevi tutto impacciato quel costume ingombrante per andare a recitarle davanti alla porta di casa la fiaba di babbo natale per le donne grandi di settembre perché a natale aveva da fare con i bambini piccoli di natale e mentre leggi quei fogli ti rendi conto che a breve da qualche armadio salterà fuori pure il costume e lo aspetti.
E salta fuori il disco 45 giri originale di Sei forte papà, che cazzo piangi ogni volta che la senti e che quando cantavi nel locale ogni volta che la facevi stavano tutti zitti perché c’era l’anima che usciva e quegli stessi che per canzoni così avrebbero tirato a chiunque i pomodori stavano zitti immobili a bocca aperta perchè tu la cantavi zitto immobile a bocca aperta e riguardi quel disco che ti porti dietro da quando ti venne regalato che quasi nemmeno camminavi e ti viene voglia di comprare un giradischi solo per risentirlo ancora ma non dall’emmepitrè perché non è la canzone è proprio il disco, quello, con la sua copertina che non vedevi da anni ma della quale ricordi ogni angolo ingiallito.
È per quello che poi ci si mette tanto.
Perché quello che per anni è stato un biglietto, una foto, una canzone, un fiore al giorno, che per questo entravano e si appoggiavano senza far rumore, diventano ore e ore di letture, di foto passate tutte insieme, di musica riascoltata, quando quei tanti singoli sporadici distribuiti negli anni diventano per necessità un totale da passare in rassegna senza sosta sera per sera, giorno per giorno, finché ogni cassetto non è svuotato, ogni scatola non è stata verificata, ogni armadio non ha tirato fuori quello che da anni custodiva in fondo.
Accidenti.
Una volta si facevano le “compilation”.
C’era la compilation vacanze, c’era la compilation della primavera, c’era una compilation per ogni storia d’amore.
Ci si chiudeva in camera serate intere ad aspettare che in radio passassero quella canzone, quella che piaceva a lei, quella che avevate sentito quel giorno là insieme, quella che conteneva quelle parole che dicevano quello che volevi dirle tu ma che non sapevi come dire.
E si passava il tempo ad aspettare che la radio le passasse per metterle tutte in fila dentro la cassetta che poi le davi il giorno dopo, con la dedica sul cartoncino e tutti i titoli scritti a mano.
Oggi si, si trovano, si scambiano, si scaricano migliaia di canzoni.
Viaggiamo con lettori che ne contengono più di quante possiamo ascoltarne negli stessi dieci anni nei quali quelle dodici sono riuscite a resistere chiuse in una scatola.
Una volta no.
Una volta un anno intero di amore era chiuso in dodici e non più di dodici canzoni e per tutto l’anno quella era la colonna sonora e ognuna di quelle dodici voleva dire qualcosa.
Facevamo intere vacanze con gli amici con le stesse dieci canzoni nella radio sempre la stessa cassetta, sempre la stessa scaletta, dieci canzoni in loop preparate con la stessa cura con la quale si preparava la valigia le settimane prima della partenza, ogni singola canzone scelta per un motivo, c’era quella che mettevi perché volevi pensare anche a lei, c’era quella per cantare insieme, c’era quella che si poteva ballare in spiaggia, c’era quella con le parolacce e in quelle dieci canzoni si stampava ogni momento bello di quella vacanza.
Bigliettini.
Decine di bigliettini gialli, rossi, bianchi, fogli di quaderno strappati ripiegati profumati chiusi e ritrovati anni dopo con quelle parole sopra, quelle parole solo per te, parole che nessun tasto delete del cellulare ha potuto cancellare dopo un minuto dalla lettura e che per questo non ti hanno ridato la persona, non sei così folle, ti hanno ridato la consapevolezza di essere stato amato davvero tanto nella tua vita.
E fa bene riscoprirlo, ogni tanto.
No, nessuna malattia, nessun legame al passato che non torna.
Semplici orgogliosi viaggi in ciò che si è stati capaci di essere per qualcuno.
No, niente di tutto questo tornerà sui nuovi scaffali.
Non c’è bisogno di feticci.
Verrà tutto chiuso in un baule che come nelle migliori tradizioni se ne andrà in soffitta, anzi soffittO, per essere aperto chissà tra quanti altri anni, chissà con chi accanto, chissà forse mai.
Ma non li butto anni come questi.
Se riuscissi davvero un giorno a rendere felice una donna, se davvero un giorno troverò un’altra donna che riuscirà a superare la prima settimana, se riuscirò davvero un giorno a dare il mio cognome a un cazzino che un giorno diverrà, avendo il mio cognome, un cazzone, sarò felice di sapere che se avranno voglia di sapere cosa mai ci sia stato prima di loro, per avermi fatto arrivare così felice a loro, potranno andare a guardare la faccia che avevo al mare con gli amici, potranno andare a leggere quante volte ho scritto “Ti amo” nella mia vita, e magari, sentendo la voce di Barbara raccontare perché mi ha amato così tanto, scopriranno che un cuore grande, dopo trent’anni come i miei, è una necessità logistica.
Se ne vengono con me questi anni.
In soffitta, perché giù serve spazio per i nuovi.
Ma non si butta un cazzo.
Non mi spaventa il mio passato.
Non è una zavorra.
È radici.
Oggi ho solo comprato casa, non sono nato.
E non sono nato oggi perché non sono morto ieri.
Sono nato trentatré anni fa e da quel giorno, ogni giorno, sto crescendo.
E sono stato amato davvero tanto.
E ho amato davvero tanto.
Ho le prove, le ho tutte qui, non le ho mai buttate.
E ogni sera sto capendo sempre di più che non potrò mai essere diverso da quello che sono.
Ma soprattutto che non voglio.
Gli anni che metto dentro queste scatole mi hanno stampato addosso dei difetti che mi rendono una delle persone più fastidiose che possano capitare.
Ma i pochi pregi che mi hanno marchiato a fuoco, la maggior parte della gente che incontro non saprebbe nemmeno trovarli sul dizionario.
E non si inventano.
Ci si cresce.
O niente.
Sono nelle radici, non nei fiori.

12 maggio 2006

Facciamo

Facciamo che io allungo una mano e chiudo gli occhi.
Facciamo che tu ti fai trovare in qualsiasi direzione io abbia allungato la mano.
Facciamo che ti fai trovare perché eri già lì e non perché volevi farti trovare.
Facciamo che ti fai accarezzare i capelli.
Facciamo che te li fai accarezzare non perché li ho trovati ma perché avvicinandoti alla mia mano i tuoi capelli le sono rimasti legati.
Facciamo che cercando di scioglierli mi tocchi la mano con la tua, anche per sbaglio facciamo.
Facciamo che così allora la mia mano toccava la tua ed era legata di tuoi capelli.
E poi io faccio quello che allora avvicinava anche l’altra mano per cercare di slegarti e tu fai quella che quando io lo facevo mi bloccava la mano con la sua libera.
E allora poi io facevo quello che ti diceva “Ehi, ci stiamo tenendo con tutte le mani” e tu facevi quella che sorridevi poi un po’ ti arrabbiavi ma per gioco e poi ridevi di nuovo.
E poi io faccio quello che era contento e cantava e tu perché sentivi la musica ballavi.
E allora gli altri ci guardavano e dicevano che anch’io ballavo perché gli sembrava ma in realtà eri tu che ballavi e io faccio quello che ti teneva solo tutte le mani e così ballavo anch’io.
E poi facciamo che tutti e due facevamo quelli che ballavano così per ore, per giorni, per anni.
E poi facciamo quelli che quando quegli anni finivano allora facevamo un altro gioco, ma non uguale, di più.
Facciamo che quando facevamo un altro gioco lo sceglievi tu perché io avevo già scelto questo che stiamo giocando adesso e dovevamo fare una volta per uno così eravamo uguali.
Facciamo che tu potevi scegliere quello che volevi anche i giochi di bambina io giocavo lo stesso perché tu hai giocato lo stesso il mio di bambino.
Facciamo che tu per scoprire che è vero sceglievi i giochi più da bambina da bambina bambina bambina che esistono.
Tu sceglievi di giocare a pettinare le bambole e io giocavo, tu poi sceglievi di giocare a cucinare e io giocavo, e poi allora sceglievi di giocare a truccarci da grandi e io giocavo per un’ora, per un giorno, per un anno, fino all’infinito così tu non potevi mai scegliere di giocare ai caubois e agli indiani perché era un gioco da maschietti e infatti l’avevo già scelto prima io.
E poi facevamo che tu eri quella che vedeva che era vero e allora mi chiedevi stai con me per sempre e io facevo quello che ti diceva ma sono già con te per sempre non vedi che siamo all’infinito?
E poi da grandi ci sposavamo.

scimmie.jpg

11 maggio 2006

per esempio

Ehi, Pà.
Mi hai visto, oggi?
No?
Ecco, l'ho fatto lo stesso.

Lo schema è:
Tu non hai mai voluto vedere, io ho sempre fatto lo stesso.
Tu non puoi più vedere, io continuo a fare lo stesso.
>Che in fondo, a ben guardare, se pure indiretto e involontario, è il tuo misero contributo alla mia crescita.
Noi intanto stasera abbiamo brindato e ci siamo abbracciati.
Secondo me un po' stupido lo sei stato.

Ehi Pà.
Mi hai visto oggi?
No?
Lo so.
Altrimenti avresti capito che dico "un po'" perchè oltre che bravo, sono anche venuto su buono.

Ehi, Pà.
Mi hai mai visto?
No, lo so.
Che in fondo, a ben guardare, seppure involontario, è stato il tuo grande contributo a quel mio essere venuto su buono.
Che essere padri, ho letto da qualche parte, significa prima di tutto essere un esempio.
Solo che quando c'hai mollati ti sei dimenticato di specificare se da seguire o no.
Ecco, te lo dico: ho dovuto capirlo di testa mia.

Ehi Pà,  non vorrei sbagliarmi, ma mi sa che c'ho preso.
Che secondo me, figli con i controcazzi che c'ho io, non ne hai fatti molti altri.
M'avessi visto oggi.
Ti saresti mangiato le mani, per quello che ti sei perso.
No, non per la casa in sé.
Ma perchè l'ho fatto con onestà.
Si si.
Avrò avuto anche solo cinque anni, ma cazzo se c'ho preso.

9 maggio 2006

Borraccia

500 chilometri in due giorni, musica alta per non dormire, sguardo fisso sul volante e su un telefono che non suona al quale avrei solo chiesto di farmi un po' compagnia in un viaggio senza passeggeri.
E poi l'ho fatto suonare io.
"Passo accanto a te, regalami solo un minuto in un parcheggio"
Perchè anche i momenti di calore, in questo momento, mi sono concessi solo se si incastrano perfettamente nel tragitto che sto compiendo.
Ecco, guido io.
Lavoro io.
Pago io.
Risolvo io.
Sono problemi miei, non ho mai chiesto a nessuno di risolvermeli e mai lo farò.
A me basta davvero solo un abbraccio stretto tra il chilometro 145.379 e il chilometro 320.555 uscita autostrada ci vediamo là.
Poi risalgo in macchina e sono pronto per altri mille mila chilometri a guidare io lavorare io pagare io risolvere io i problemi miei.
Non ho mai chiesto soluzioni.
Mi basta solo una borraccia ogni mille chilometri e qualcuno che me la passi al quale si, per una borraccia si, non smetterò mai di rivolgermi.
Che saper fare le cose da soli non singnifica non aver mai bisogno d'aiuto.
Significa solo arrivare da soli dove è giusto, e bello, arrivare da soli.
Ma che io rifiuti anche le borracce è un gigantesco malinteso.
Quando chiedete a qualcuno se ha bisogno del vostro aiuto e vi sentite rispondere "No" non scomparite.
Magari un semplice supporto lo avrebbe accettato.
Magri per altro.
Magari non per il problema.
Magari solo un cuscino sul quale riposare un po'.